Cinema Il mestiere del critico
L’UTOPIA DELLO SCIBILE
“La città ideale”, un film -opera prima-di Luigi Lo Cascio
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Gli interrogativi si affacciano fin dall’attribuzione della paternità. Chi è l’autore della Città ideale, dipinto a tempera conservato nella Galleria Nazionale delle Marche, a Urbino, immagine simbolo del Rinascimento, capolavoro di armonia e perfezione? Piero della Francesca? Giuliano da Sangallo? Leon Battista Alberti?
Lo stesso vale per l’identità di Michele Grassadonia, architetto, ecologista di ferro che ha lasciato la natia Palermo per trasferirisi in quel di Siena, da lui ritenuta “la città ideale” (il caso Monte dei Paschi e il misterioso suicidio di David Rossi erano di là da venire e di sicuro avrebbero rimesso tutto in discussione), perfetto teatro-laboratorio per il suo bizzarro esperimento che consiste nel vivere in piena autosufficienza, senza dover ricorrere a utenze di luce, acqua e gas. In questo tentativo di abbinamento fra persona e ambiente, Michele riuscirà a trovare la perfezione? In una notte da lupi e sotto una pioggia scrosciante, Michele è coinvolto in un incidente automobilistco che sulle prime sembra di poco conto: un’ammaccatura sul parafango e null’altro. Ma non è così, perché Michele poco più avanti troverà il corpo di un uomo bocconi sull’asalto e un’auto nel fosso sull’altro lato della strada.
Da quel momenrto la “città ideale” di Michele comincia a rivelare crepe su crepe e la sua vita, regolata e controllata nei minimi particolari, si vedrà proiettata in una serie di complicazioni da incubo, un’insidiosa tela di ragno nella quale Michele resta prigioniero. A poco a poco certezze a lungo coltivate svaniscono. Michele, che aveva sempre tenuto sotto controllo anche il più piccolo evento, si accorge che la realtà è una cosa ma il modo in cui la si vede e la si racconta è un’altra. Tutto ciò che è reale è razionale, diceva Hegel, ma nella “città ideale” le cose vanno esattamente in senso contrario, perché l’irrazionale sembra invece il filo di Arianna in grado di far uscire Michele dal labirinto in cui è finito.
Opera-prima di Luigi Lo Cascio, autore e protagonista, La città ideale ha vissuto nei giorni scorsi l’occasione di un confronto con discipline scientifiche che vanno dall’urbanesimo all’architettura e alla sociologia. All’Università degli Studi Milano-Bicocca il sociologo americano Richard Sennett, docente alla New York University, ha tenuto una relazione nella quale ha presentato tre modelli di “città aperta”, equivalente della “città ideale”, tre progetti che puntano alla creazione di “confini ambigui tra le diverse parti della città”. Un po’ quel che capita a Michele nel film di Lo Cascio. Come in una cartina di tornasole, fin da questa premessa si delinea la stretta relazione fra la materia trattata e l’esperienza vissuta da Michele Grassadonia, il cui confine ambiguo è la linea evanescente che lo separa dal mondo che lo circonda e con il quale non riesce a relazionarsi.
Richard Sennett sostiene infatti che il reale è una ”narrativa irrisolta”, dove, a differenza di quel che succede nei romanzi-rosa e nelle commedie sentimentali, in cui la catarsi finale trova la soluzione alle peripezie del protagonista, in altre parole dove Cenerentola sposa il principe, la vita reale non è coronata da alcuna soluzione favorevole. A differenza della pianificazione urbana, la pianificazione esistenziale è altra cosa e abbraccia “forme non lineari di sequenzialità”. E’ quel che capita a Michele Grassadonia, che dopo l’incidente automobilistico entra in una dimensione in tutto e per tutto simile a un brutto sogno, a un incubo che lo perseguita e non gli dà tregua. Dimensione che definire kafkiana suona banale. Il modello è piuttosto Friedercih Dürrenmatt e il suo procedere attraverso l’esasperata accentuazione di motivi grotteschi e beffardi ai quali inutilmente si cerca di replicare con un’affannosa quanto inutile ricerca di logica che spacca invano il capello in quattro. E così, nonostante tenti di ricorrere alla precisione analitica di un entomologo, il protagonista è incalzato da un meccanismo assurdo che lo trascina nel cuore di un racconto poliziesco.
L’anello debole del film è proprio questo innesto nel filone del “giallo”, con l’aggravante di trascurare l’osservanza di regole elementari del genere e abbandonare lo sviluppo della trama strada facendo. Esemplificativo il mistero dell’uomo rinvenuto da Michele nel diluvio notturno. Il fatto è che la tecnica del “giallo” non conosce zone grigie e tantomeno le concede. Il pur ambiguo confine che consente di superare il racconto metafisico (alla Dürenmatt, appunto) non ammette incongruenze quando si procede in parallelo con la “detective story”. L’incongruenza è sempre minacciosa e appostata dietro l’angolo, è il terreno minato del poliziesco, con schiere di fan in vigile attesa, pronti a cogliere l’autore in fallo al minimo sgarro.
Questa insicurezza stilistica fa sì che la struttura del film si articoli in tre parti nettamente distinte che non riescono a integrarsi fra loro: 1) l’eccentrico personaggio di Michele, monomaniaco, condizionato fino al ridicolo dalla sua esaltazione ambientalista; 2) il “giallo” rimasto a metà e risolto soltanto in parte; 3) la tesi di fondo, secondo la quale la purezza ecologica dell’esemplare cittadino Michele non riesce a trasformarsi in trasparenza civile allorché dovrà confrontarsi con le distorsioni dell’apparato burocratico, poliziesco e giudiziario.
Quest’ultima parte, con la metamorfosi di Michele rientrato nella sua Palermo (e di conseguenza rivalutata, per necessità eletta a “città ideale”), è la parte migliore del film, che lascia filtrare in pieno il profumo dell’originalità. In un finale che vale il prezzo del biglietto, con Pirandello e Sciascia assunti come guide del saper vivere secondo le regole che la società, e non l’individuo, impone. Con un Luigi Maria Burruano (zio di Luigi Lo Cascio) che nel ruolo dell’avvocato offre un superlativo teatrino di come la verità non sia altro che un elastico che si può tirare a piacere